di Giusi Riso

Quando Leila lo depose sul tavolo, il calice di cristallo tintinnò per un attimo contro la bottiglia. Di solito, terminata la cena, in casa Rainshort ci si riuniva nella sala più grande. Le gemelle e la loro istitutrice giocavano con le bambole di pezza che Mr. Rainshort portava dai suoi viaggi. Lo stesso Mr. Rainshort leggeva i suoi libri preferiti accanto al focolare. Mrs. Rainshort ricamava finché gli occhi stanchi non le lasciavano desiderare nulla se non sprofondare nel cuscino fresco ed immacolato al piano di sopra. A quel punto i domestici avevano finito di ripulire in sala da pranzo e badavano agli ultimi tizzoni di fuoco e a spegnere le candele. Ma Leila guardava i fiocchi di neve cadere giù dal cielo nero, con i palmi appoggiati alle grandi vetrate e il respiro che appannava il vetro.
Improvvisamente un suono in lontananza fece ritrarre per un attimo Leila dal vetro. Passato lo stupore, aguzzò lo sguardo riavvicinandosi col naso al vetro, tentando di vedere aldilà della fitta cortina di neve che scendeva incessante. Tutto ciò che si riusciva a scorgere era buio, buio totale. Ancora quel suono, poi ancora una volta. Più forte. Ripetuto.
“Ascoltate!!! Lo avete sentito?!”. Solo cenni di dissenso. Eppure lo aveva sentito. Lo aveva sentito quell’ululato, o qualunque cosa fosse.  Agghiacciante, penetrante. Come avevano fatto a non sentirlo? Che strana bestia poteva aver emesso quel suono? Eppure sembrava così vicino, sembrava quasi aldilà della balconata…
Era ormai buio pesto e in quel silenzio ovattato l’unico suono che si udiva era il raschiare della paletta che Jenna, la domestica, adoperava per liberare il caminetto dalla cenere che si sparpagliava tutt’attorno. Le gemelle si erano addormentate sulla moquette azzurra mentre Silvia, l’istitutrice, accarezzava loro i capelli. Mr. Rainshort doveva essersi ritirato nel suo studio mentre la sua consorte, dando gli ultimi punti sul telaio, alzava lo sguardo con disappunto soltanto verso Silvia, non contenta che le gemelle non fossero ancora a letto. Ed ecco che arrivò ancora una volta. Quel suono che sembrava ghiacciare all’istante le ossa e far sanguinare le orecchie. Forse un ululato, forse umano. Sul finire diventava acuto, stridulo, e lì si aveva la certezza che un uomo non era affatto in grado di emettere qualcosa di simile. “Sarà qualche animale che gironzola nel parco, signorina Leila.” disse Silvia. No, non poteva essere. Il suono era troppo vicino, troppo! Jenna portò dell’acqua e tirò con uno scatto la pesante tenda rossa.
Parve passato un attimo quando Leila riaprì gli occhi e staccò la guancia dalla moquette azzurra, ma ormai la sala grande era quasi buia. Non sapeva quanto aveva dormito ma dovevano essere passate poche ore poiché gli unici bagliori rossi venivano dal caminetto dove qualche tizzone non era spento ancora del tutto. Erano andati tutti via, probabilmente al calduccio nei loro letti. Leila ebbe un brivido ricordando quell’orrendo ululato che aveva sentito poche ore prima e, rendendosi conto che stava dando le spalle alla vetrata, sussultò e si girò di scatto verso il vetro ma… le pesanti tende rosse erano state tirate dai domestici e né il vetro, né la neve, né la balaustra del balcone erano visibili. Ad un tratto lo sentì. Acuto, agghiacciante e penetrante ancora una volta. Due, tre, quattro volte. Si avvicinava. Ma perché nessuno si svegliava? Leila si alzò di scatto, corse attraverso la sala spalancando la porta ed entrando in sala da pranzo. L’ululato si faceva sempre più vicino e assordante. Qualunque cosa fosse, era in casa. Scese di corsa le scale e si riversò nell’atrio. Le orecchie pulsavano dal dolore. Spalancò la porta dell’ingresso e si ritrovò al freddo, coi piedi nella neve bianca. L’ululato era cessato improvvisamente. Si sedette sui gradini di pietra ricoperti di neve con la testa tra le mani. Era solo nella sua testa. Si, il sonno doveva averla intontita e averle fatto immaginare tutto. Tolse le mani dal volto e una gocciolina d’acqua ghiacciata le cadde sul palmo. Poi un’altra. L’aria fredda e quelle goccioline sembravano schiarirle le idee. Le osservava cadere una ad una nel palmo della sua mano, probabilmente il ghiaccio sotto la balconata iniziava a sciogliersi e a gocciolare. Ad un tratto però una goccia di colore diverso: “sono i miei occhi?!”. Rossa. Gocce rosse, dall’odore acre del sangue. Era proprio sangue! Alzò lo sguardo terrorizzato e lo vide colare dalla balconata. Ripercorse la via a ritroso correndo e irruppe nella sala grande ancora scarsamente illuminata dai quattro tizzoni rossi. I piedi nudi slittarono in qualcosa di viscido; alzò lo sguardo e li vide. Dapprima solo sagome che penzolavano dal soffitto, poi distinse meglio i volti delle gemelle, della mamma, del papà e dei domestici. Erano tutti lì, con gli occhi vacui della morte, le gole tranciate e sanguinanti appese a massicce corde che pendevano dal soffitto. La grande vetrata era spalancata e turbini di aria e neve fredda entravano nella stanza. Cadendo a terra, i fiocchi candidi e gelidi si scioglievano nella pozza di sangue caldo.